Medieovo al femminile, quanto le donne contavano nella società

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Trotula de Ruggero
view post Posted on 22/10/2010, 10:22




Ecco un esempio di quel che dissi tempo fa riguardo al contesto.
Chi vuole parlare della condizione della donna nel Medioevo (Georges Duby compreso), comincia sempre citando San Paolo e le solite frasi della Prima Lettera ai Corinzi (citate non a caso anche nei film Agorà e La Papessa), che indicherebbero l'atteggiamento misogino della Chiesa fin dall'inizio. Chissà perché vengono citati soltanto quei due o tre versetti e non tutto il passo, leggendo il quale quelle parole vengono di molto ridimensionate. Siamo proprio sicuri che San Paolo parlasse per misoginia? Consiglio di dare un'occhiata a questo bell'articolo di Elena Bosetti, teologa, docente di Esegesi del Nuovo Testamento, apparso sulla rivista Jesus (n. 1 / gennaio 2009).

Amiche, sorelle, apostole



di Elena Bosetti

L’idea che Paolo avesse un pregiudizio negativo nei confronti delle donne è contraddetta dalle Lettere dell’apostolo, che cita spesso figure femminili con responsabilità di rilievo nelle prime comunità cristiane.

È ancora diffusa l’idea che tra Paolo e le donne non sia corso buon sangue. Non si possono negare alcune aperture, ma in fondo serpeggia il sospetto che l’Apostolo abbia contribuito a frenare la carica rivoluzionaria del Vangelo. È davvero così? Trova fondamento questo sospetto nelle Lettere dell’Apostolo? Paolo non ha certamente bisogno di essere difeso, ma semmai compreso. Troppe volte infatti è stato e viene ancora frainteso e usato contro le donne.
In prima istanza gli dobbiamo l’affermazione della fondamentale uguaglianza e dignità battesimale. Nella Lettera ai Galati (3,27-28) risuona un forte grido di libertà, contro ogni discriminazione di tipo razziale, sociale e sessuale: «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». Questa dichiarazione suona decisamente antitetica ai pregiudizi sottesi al triplice ringraziamento di una preghiera di origine rabbinica, ancora vigente: «Benedetto sei tu Signore... perché non mi hai fatto pagano, perché non mi hai fatto donna, perché non mi hai fatto schiavo». In Cristo, insomma, cessano le discriminazioni, non è più rilevante l’identità etnica o il prestigio sociale, e nemmeno l’essere maschio o femmina.
Questa nuova consapevolezza trovava piena espressione nella prassi liturgica dove uomini e donne, indipendentemente dal loro ceto sociale, si riunivano per celebrare insieme la cena del Signore. Tale consapevolezza della fondamentale uguaglianza e dignità era in se stessa rivoluzionaria e l’Apostolo non l’ha certo soffocata. Egli teneva in grande conto la dignità e i carismi della donna. La «corsa della Parola» non deve forse molto alla capacità femminile di tessere reti di comunicazione? Paolo non è cieco nei confronti della "fatica" delle donne, si rende perfettamente conto del loro prezioso ministero nell’opera di evangelizzazione e lo apprezza. Al riguardo sono eloquenti le sezioni conclusive delle sue Lettere, riservate ai saluti. Non hanno il prestigio dei brani dottrinali, ma sono fonti di prima mano per la ricostruzione storica del ruolo delle donne nelle comunità missionarie del primo cristianesimo. Inoltre dicono chiaramente i sentimenti di stima, di gratitudine e affetto grande per numerose donne che Paolo chiama per nome. Traspare la ricca umanità dell’Apostolo, la sua vasta rete di conoscenze e di relazioni femminili.

Febe, Prisca, Trifena e Trifosa, Perside: una fitta sequenza di nomi femminili.
Piuttosto trascurate perché non rilevanti sotto il profilo dottrinale, le liste dei saluti costituiscono una sorta di spaccato del vissuto ecclesiale e una preziosa miniera di informazioni. Nell’ultimo capitolo della Lettera ai Romani sono menzionate undici donne. Un femminile concreto. Dietro i nomi ci sono i volti e le personalissime vicende di ognuna di queste donne coinvolte nella diffusione del Vangelo. In primo piano Febe, il cui nome significa «luminosa, splendente». È lei che porta personalmente a Roma la lettera dell’Apostolo, il quale si premura che la comunità l’accolga nel modo più ragguardevole: «Vi raccomando Febe, sorella nostra, che è anche diacono della chiesa che si trova a Cencre» (Rm 16,1).
Febe è donna che emerge per responsabilità e impegno in una comunità complessa e multietnica quale era Cencre, il porto orientale di Corinto. Paolo la presenta ai Romani come «sorella nostra», vale a dire sorella sua e loro, nella medesima fede. Le attribuisce inoltre il titolo di «diacono» (diakonos) che tanto fa discutere; con il medesimo termine Paolo designa il proprio ministero a servizio del Vangelo. Egli invita ad accogliere Febe secondo lo stile dell’ospitalità cristiana – «nel Signore» – e aggiunge: «Assistetela in qualunque cosa possa aver bisogno di voi; anch’essa infatti è stata protettrice di molti e anche di me» (Rm 16,2). La parola «protettrice» (prostátis) ricorre solo qui nel Nuovo Testamento. Paolo non si vergogna di confessare che ha beneficiato dell’aiuto di una generosa patrona, anzi le riserva profonda gratitudine. Nel contesto delle difficoltà incontrate dall’Apostolo durante sua permanenza a Corinto (più di un anno e mezzo) Febe si è rivelata una vera amica, degna del nome che porta: luminosa, splendente.
Paolo saluta quindi una formidabile coppia missionaria, Prisca e Aquila. Non è un dettaglio casuale che menzioni il nome della moglie prima di quello del marito. Di questa benemerita coppia giudeo-cristiana si parla sei volte nel Nuovo Testamento e in quattro casi il nome di Prisca (o Priscilla) precede quello di Aquila. Segno di rispetto o qualcosa di più? Sembra che Prisca, di origine aristocratica, fosse la proprietaria della casa in cui si radunava una delle comunità giudeo-cristiane di Roma. Costretti a lasciare la capitale in seguito all’editto dell’imperatore Claudio che ordinava l’espulsione da Roma di tutti i giudei, i due coniugi incontrano Paolo a Corinto. Nella loro casa l’Apostolo trova ospitalità e anche lavoro, poiché erano del medesimo mestiere, fabbricatori di tende (Atti 18,2-3).
Nasce così una profonda intesa e durevole amicizia. I due sono al fianco di Paolo anche a Efeso dove si prendono cura della comunità. Colpisce il loro comportamento nei confronti di Apollo, un neoconvertito proveniente da Alessandria, dotato di vasta conoscenza delle Scritture e di notevole comunicativa, che però aveva ricevuto soltanto il battesimo di Giovanni: «Priscilla e Aquila lo ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio» (Atti 18, 26). Bella questa capacità di ascolto e di valorizzazione del positivo, che non rinuncia a prendersi cura della piena formazione! Si capisce che Paolo è molto legato a questi due coniugi, che saluta cordialmente come suoi «collaboratori» ricordando che per salvargli la vita «hanno rischiato la loro testa» (Rm 16,3-4).

Giunia: donna tra gli apostoli.
La lista dei saluti menziona un’altra coppia benemerita, Andronico e Giunia: «Miei parenti», scrive Paolo, «e compagni di prigionia: sono insigni tra gli apostoli ed erano in Cristo già prima di me» (Rm 16,7). La qualifica di «parenti» può essere interpretata in senso ampio, come appartenenti etnicamente al medesimo popolo dei giudei. Non può avere invece semplice valenza metaforica il dettaglio «compagni di prigionia». Non ci è detto in quale carcere, ma è più importante sapere che in carcere c’era anche lei, Giunia, e Paolo deve esserne rimasto talmente edificato che non trova difficoltà alcuna ad attribuirle il titolo di «apostolo». Bello il commento di Giovanni Crisostomo: «Essere tra gli apostoli è già una gran cosa, ma essere insigni tra di loro, considera quale grande elogio sia; ed erano insigni per le opere e per le azioni virtuose. Accidenti, quale doveva essere la "filosofia" di questa donna, se è stimata degna dell’appellativo degli apostoli!» (citato da R. Penna).
Nei saluti della Lettera ai Romani Paolo ricorda anche donne singole: Maria, Trifena e Trifosa, accomunate dal riconoscimento «che hanno lavorato/faticato per il Signore». Con il medesimo verbo Paolo indica il proprio lavoro di predicazione e insegnamento. Un posto speciale nei saluti è riservato alla «diletta Pèrside»: anche lei «ha molto faticato nel Signore». L’ultima serie di saluti menziona la madre di Rufo, che Paolo considera come sua stessa madre. Evidentemente in qualche parte dell’Oriente, in Grecia o in Asia, deve averne sperimentato l’affettuosa accoglienza. E poi ancora saluti (il verbo utilizzato include anche il senso di «abbracci») per Patroba e Giulia, per la sorella di Nereo e Olimpas. Impressiona questo fitto elenco di nomi femminili, dietro i quali ci sono volti e ruoli, e soprattutto amore e dedizione incondizionata al Vangelo.
La Chiesa nasce essenzialmente come domus ecclesiae, «chiesa domestica». Il suo ambiente d’origine non è il tempio e neppure la sinagoga, ma la casa (vedi Atti 2,46). E all’interno della casa, anche se non menzionata, troviamo la donna. È lei che favorisce un ambiente accogliente e un clima di ospitalità. E talvolta anche un servizio di animazione e una funzione di guida. I missionari del Vangelo debbono molto a donne come Lidia, la ricca commerciante di porpora che a Filippi insiste per accogliere Paolo e compagni: «Li costrinse ad accettare», annota Luca (Atti 16,14). La casa di questa donna europea diventa grembo della chiesa di Filippi e centro propulsore del Vangelo.
Nella lettera a Filemone l’Apostolo esorta due donne di spicco, Evodia e Sintiche, a trovare un accordo nel Signore. Non sappiamo la ragione del loro dissenso, forse divergenze pastorali. Paolo ricorda che «hanno combattuto per il Vangelo» al suo fianco. Sono dunque missionarie convinte e generose, fino a esporre la vita per la causa del Vangelo. Mi piace notare un altro dettaglio: in questa lettera, unico caso nel Nuovo Testamento, Paolo fa il nome di una donna già nell’intestazione. La lettera non è indirizzata soltanto a Filemone (come abitualmente si dice) ma anche «alla sorella Apfia», probabilmente moglie di lui. Colpisce il tono caldo e personalissimo di questo scritto e la forza persuasiva delle ragioni affettive: una schietta amicizia lega Paolo a questa casa in cui si raduna la Chiesa e in cui desidera anche lui trovare alloggio appena uscirà dal carcere.

Elena Bosetti

Un segno di autorità
Perché Paolo chiede alle donne cristiane – oranti e profetesse – di avere il capo coperto nell’assemblea liturgica? Egli pretende che le donne siano femminili, ma non usa mai la parola «velo». La copertura di cui parla è il «velo» naturale dei capelli (non quello di stoffa). Non si tratta di un segno di dipendenza ma piuttosto di «autorità» (exousia), come viene reso nella nuova versione della Bibbia della Cei: «La donna deve avere sul capo un segno di autorità» (1Cor 11,10). Non quella del potere patriarcale o clericale, ma l’autorità che Dio stesso le ha conferito nella nuova creazione.


Edited by Trotula de Ruggero - 30/10/2010, 11:00
 
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Trotula de Ruggero
view post Posted on 29/10/2010, 14:44




Madonna Eloisa, dai un'occhiata a questa pagina.
Riassume molto bene il contenuto del libro Libere di esistere, anche perché è curato proprio dalle sue autrici.

www.donneconoscenzastorica.it/testi/libere/apertura.htm
 
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Madonna Eloisa
view post Posted on 29/10/2010, 19:03




CITAZIONE (Trotula de Ruggero @ 29/10/2010, 15:44) 
Madonna Eloisa, dai un'occhiata a questa pagina.
Riassume molto bene il contenuto del libro Libere di esistere, anche perché è curato proprio dalle sue autrici.

www.donneconoscenzastorica.it/testi/libere/apertura.htm

Un sito molto interessante e denso...Vi ho dato un'occhiata e spero di trovarci qualche buon stimolo. Grazie
 
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Trotula de Ruggero
view post Posted on 16/11/2010, 14:36




Importanti novità per l'annosa questione: chi è Maria di Francia?
Mi sono imbattuta per caso in un libro molto interessante uscito l'anno scorso, pubblicato dalla romanista Carla Rossi.

Marie de France et les érudits de Cantorbéry, Paris, Classiques Garnier, 2009.

In questo libro viene lanciata un'ipotesi interessante e audace: che Maria di Francia sia Dame Marie, badessa di Barking dal 1173, soror Sancti Thomae.
Sorella di San Tommaso Beckett, dunque, e, di conseguenza, parte integrante della cerchia di intellettuali della corte arcivescovile di Canterbury (contrapposta a quella della corte plantageneta); sarebbe inoltre autrice anche di un testo agiografico, una Vie Seinte Audree.
Ipotesi decisamente affascinante...
 
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Madonna Eloisa
view post Posted on 13/12/2010, 14:51




La teoria del legame famigliare fra Tommaso Beckett e Maria di Francia non mi era nuova, ma in questo momento non ricordo in quale libro l'ho letto. Devo riuscire a fare mente locale.
Comunque e qualunque sia la famiglia da cui ella proviene, si nota sempre un sostrato culturale molto alto e incentivante.
Rimane però un dubbio: a quale titolo venne chiamata "di Francia"?
Di solito uso wikipedia solo per controllare delle date o piccoli particolari (non do una credibilità scientifica incontestabile, anzi), però in questo caso riporta proprio le teorie di Carla Rossi, da Trotula citata.
Sperando che siano giuste, riporto il link per la lettura di tutti:
http://it.wikipedia.org/wiki/Maria_di_Francia_(poetessa)
 
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Trotula de Ruggero
view post Posted on 18/12/2010, 16:01




In questo topic rispondo agli articoli inseriti da Donna Eloisa.
Bello l'articolo della Bayon (il primo), credo sia quello che cita Pina Boggi Cavallo nell'articolo che a suo tempo ti inviai "Donne e medichesse a Salerno: Trotula de'Ruggiero" (a proposito, quando lo inserisci?).
Non condivido il secondo, perché (almeno da quel che ho letto finora) la questione è più complicata. Non credo che l'esclusione delle donne dalla medicina (e in generale dalla vita intellettuale) vada automaticamente connessa con la caccia alle streghe. La prima è conseguenza della tendenza dell'Università a monopolizzare il sapere, e anche il sapere medico; e l'università è mondo misogino per eccellenza, visto che la maggior parte dei testi misogini medievali sono ricollegabili agli ambienti universitari (a proposito, Donna Yolande, sto ancora aspettando il saggio della Pernoud!!)
La caccia alle streghe verrà dopo, in pieno XVI secolo, ed è un fenomeno più complesso di quanto non sembri; in particolare perché buona parte dei processati per stregoneria erano uomini (e una bella fetta addirittura sacerdoti o religiosi!), e poi perché quella dell'occultismo, nella prima età moderna, contrariamente a quanto si crede, fu una vera e propria mania che non risparmiava nemmeno i cervelli più eccellenti (uno per tutti, Newton). Donna Eloisa, che ha letto il saggio di Rino Cammilleri La vera storia dell'Inquisizione lo sa. Preciso che di Cammilleri saggista non mi fido molto, perché ha la pessima abitudine di non citare mai le fonti, ma alle stesse conclusioni arriva lo storico Adriano Prosperi nei suoi saggi (cfr. anche Franco Cardini, Quando le streghe venivano salvate dagli inquisitori, in "Avvenire", 29 agosto 1990). In particolare, una trattazione interessante del fenomeno è quella dello storico e sociologo americano Rodney Stark contenuta nel libro (non ancora pubblicato in Italia) For the Glory of God. Potete leggerne qualche stralcio qui:

http://books.google.it/books?id=xkL0imZzlC...epage&q&f=false

Se Donna Eloisa pensa non vi sia il rischio di sfociare nella polemica, si potrebbe aprire una sezione apposita su questi problemi di Storia della Chiesa con annessi e connessi, tanto più che sto traducendo due saggi all'interno della miscellanea americana Misconception about Middle Ages, uno di una specialista del problema della caccia alle streghe, e l'altro riguardante in generale l'assunzione di una "corruzione generalizzata" della Chiesa medievale.

Edited by Trotula de Ruggero - 10/1/2011, 15:39
 
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Madonna Eloisa
view post Posted on 21/12/2010, 15:56




Aspettiamo dopo Natale, nel caso per aprire delle polemiche, eh?
Scherzi a parte, il mio inserimento di varie visioni (da quello un po' troppo stereotipate a quelle più verosimili) del medioevo era proprio per riscaldare l'atmosfera di questo forum che era un po' freddina...
 
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Trotula de Ruggero
view post Posted on 23/1/2011, 20:04




Intanto che aspettiamo il momento giusto per "aprire polemiche", inserisco qui il collegamento a un articolo molto interessante e molto ben documentato, che dà un'idea del contesto dal contesto sociale da cui viene Trotula. Confrontandolo con un articolo di Patricia Skinner, specialista della Langobardia Minor, calza a pennello.

http://www.storiadigitale.it/book/e-mediev...onne-longobarde

A questo quadro bisogna però aggiungere il cambiamento in positivo per le donne che portò l'invasione normanna, che aveva alle spalle una tradizione consolidata di compartecipazione femminile (cfr. l'articolo di Amy Livingstone).
 
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Trotula de Ruggero
view post Posted on 4/3/2011, 18:11




In questo periodo sto preparando una conferenza sulle medichesse della Scuola Medica Salernitana, e sono venuta in possesso di queste immagini tratte dal Codex Vindobonensis 93 (Erbario dello Pseudo Apuleio), compendio di medicina esemplato nell'Italia meridionale nella prima metà del XIII secolo:









Nel particolare, è interessante quello che la direttrice del Museo Virtuale della Scuola Medica Salernitana, la dott.ssa Mariella Pasca, dice dell'ultima immagine nel numero 7 di Schede Medievali (1988):

In una miniatura di vivace realismo l'ammalato, nudo, si spalma sull'ano un l'unguento portato dalla dottoressa e preparato, con estratto di mora, dal personaggio maschile all'estrema destra; poiché è improbabile che questo personaggio sia da identificare con il medico stesso - e la donna quindi come semplice infermiera - sembra piuttosto che la miniatura offra un'interessante testimonianza della distinzione, sancita da Federico II, tra il confezionario, preposto appunto alla confezione dei farmaci, e il medico. che doveva somministrarli. A volte è la stessa dottoressa ad essere assistita da un uomo, evidentemente in funzione subordinata.

Evidenza anche iconografica, dunque, sull'attività delle medicae nell'Italia meridionale.
 
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Trotula de Ruggero
view post Posted on 12/3/2011, 15:28




Se t'interessa, Donna Alberica, ecco un sunto abbastanza ben fatto della vita di Sichelgaita, scritto da Giovanni Napolitano, tra l'altro dell'ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro; con qualche forzatura, abbastanza ben documentato e dallo stile gradevole. L'ho inserito nel mio blog, che ho intitolato appunto "Il palazzo di Sichelgaita", con qualche nota mia.

http://ilpalazzodisichelgaita.wordpress.co...lade-longobarda

Edited by Trotula de Ruggero - 1/4/2011, 17:54
 
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Trotula de Ruggero
view post Posted on 26/4/2011, 18:24




E, parlando della condizione della donna nel Sud Italia, qualche chicca interessante si trova nel libro Un'epitome in volgare del "Liber Augustalis" di Domenico Maffei, edito da Laterza. Si tratta di una volgarizzazione quattrocentesca in volgare pugliese del codice fredericiano ad opera di Ippolito Lunense, su commissione (cosa interessante) di Diomede Carafa, consigliere di Ferdinando d'Aragona.
Dal punto di vista del diritto privato, Federico II non è stato un grande innovatore e si è semplicemente riallacciato in molti casi alla tradizione normanna a lui precedente; il che rende il testo ancora più interessante.
Anzitutto perché, accanto al concetto classico dell'infirmitas sexus tipica del diritto romano, compare anche il concetto di dignitas sexus. Dignità che la legge tutela.
Anzitutto dal punto di vista sessuale, a cominciare naturalmente dalle monache:
CITAZIONE
".. .si alcuno furasse una monaca, anchora che non sia velata, deve essere privato de la vita"

(I 20)
Altro particolare curioso: chi avesse violentato una prostituta doveva essere privato del capo, a condizione però che la denuncia venisse fatta dalla donna entro otto giorni dalla violenza. E la violenza carnale e il ratto (contro tutte le donne) erano comunque reati capitali.
La consuetudine obbligava il celibe che violava una vergine a riparare prendendola in moglie. In questa versione del Liber Augustalis ciò non costituisce una sanzione di per sé e dunque non mette al riparo il colpevole:
CITAZIONE
".. .cessante quell'antiqua consuetudine che voleva che, si lo raptore la pigliasse per mogliere, non fusse tenuto ad alchuna pena."

(1.22.1)
Altra cosa interessante: in caso di processo, la donna doveva essere rappresentata o da un parende maschio o da un avvocato; le vedove avevano diritto a un difensore d'ufficio, ed era obbligata ad andare di persona in tribunale solo chi non avesse parenti maschi o chi fosse molto povera.
In campo economico, la maggiore età delle donne era fissata a 18 anni, come gli uomini (in Francia era fissata a 12, per gli uomini a 15), età in cui (nel caso in cui non vi fossero fratelli maschi) poteva ereditare. In caso di minore età veniva trattata alla stessa stregua degli eredi minorenni maschi: veniva cresciuta presso la corte dell'Imperatore che prendeva in consegna i suoi beni, restituendoli poi alla donna al momento del matrimonio.
In caso di adulterio, la pena per la donna era la fustigazione o il taglio del naso, e per l'uomo la confisca di tutti i beni (III 74), ma non c'è reato se la complice di quest'ultimo è una prostituta. Rimane la concessione tipica del diritto romano del delitto d'onore in caso l'uomo in questione sorprenda la moglie in flagrante adulterio.

Edited by Trotula de Ruggero - 28/4/2011, 10:10
 
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